Turbo-capitalismo e cinema tartaruga

Tra i pochi momenti di svago a sfondo sociale che mi concedo durante l’anno, il cinema è senza dubbio la mia soluzione preferita, o almeno è quello che ho fortemente voluto credere finora. Folgorato da bambino dalla proiezione della versione restaurata del primo episodio di Guerre Stellari alla mia prima sala cinematografica senza genitori, intuii subito che pochi luoghi pubblici al mondo potessero competere con le poltrone rosse, col buio, con lo schermo luminoso che occupa tutto il campo visivo: quanto di più vicino al concetto di astrazione l’umanità sia riuscita a regalarmi. Il passare del tempo non ha fatto altro che rafforzare questa mia passione, che comunque mi concedevo col contagocce, come si dovrebbe fare con tutte le cose belle; più passava il tempo e più la nebbia di nicotina si diradava, poi ci fu l’avvento dei multisala e anche l’ultimo ostacolo alla fruizione del mio bene spariva: l’intervallo. Non c’è dubbio che l’americanizzazione dell’esperienza del cinema non mi ha sconfortato più di tanto ed in effetti non posso negare che la maggior parte dei film che vedevo in sala fossero colossal americani. E in tutto ciò riuscivo ad alimentare la mia vena ribelle e anticapitalista facendo la cosa che più infastidisce il pubblico e che più mi piace fare ancora adesso: commentare il film a voce alta con gli amici, durante la proiezione. Non mi augurerei mai di capitare al cinema con me.

Quindi intuirete che la situazione era assolutamente, tranne qualche raro tentativo di linciaggio, vincente da tutti i punti di vista; ma si sa, nella vita si cresce e si passa al plateau successivo spesso senza rendersi conto di quando o come, ma succede, e nel momento in cui te ne accorgi, ti rendi conto che sei peggiorato un pochino e che anche la vita è peggiorata un pochino da par suo. In questo specifico caso il peggioramento avviene quando smetti di seguire la storia di un film e incominci a vedere il film vero e proprio, ovvero tutto quello che il cinema Americano ha fatto scomparire sperando che ti concentrassi esclusivamente sulla storia. Rapidamente la mia esperienza di spettatore si è trasformata in una ossessiva visione di scene fotocopiate, di posizioni della camera stabilite come da un manuale, al millimetro, dell’utilizzo della luce senza alcuna velleità drammatica non banale. Soltanto commentare ferocemente quasi ogni singola scena di un film non mi tratteneva dal restare a casa a immaginare quanto potrebbe essere stato bello: attività per altro del tutto fine a se stessa e poco meno degradante del questo-l’-avrei-saputo-fare-anche-io che riecheggia in ogni museo d’arte contemporanea. 

Ma la rabbia di vedere queste persone montare un mobile Ikea seguendo le istruzioni quando potrebbero permettersi di pagare fior fiori di ebanisti per stupire il mondo, questa costante eco del geometra che ti dice di mettere il cesso vicino alla cucina, che così è funzionale, questa corsa alla standardizzazione che caratterizza tutto ciò che deve riguardare più di poca gente, tutto ciò mi ha fatto innanzitutto innervosire nella maniera in cui si da di matto per una piccolezza che in realtà non fa altro che straboccare tare enormi e pesanti, e poi mi ha fatto anche pensare che però piacere a tutti e rendersene conto deve essere una fonte di profonda frustrazione, ma anche non piacere a nessuno è abbastanza una merda.